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GLI APPROFONDIMENTI DEL CINE-FORUM

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L’immedesimazione e il cinema
(A cura di Splendinì)

Brevi appunti per l’individuazione di un principio ermeneutico atto a regolare il giudizio sull’opera di celluloide

 

  Se il film non emoziona […] è una ciofeca!

(Technino, Critica della ragione cinematografica, Edizioni Hollywood, Roma 2008, p. 3)

La tesi che intendiamo sostenere con questo intervento è che il principio guida per giudicare il valore di un film va rinvenuto nella capacità di suscitare emozioni. Definiamo detto principio come capacità di immedesimazione. Capacità, cioè, da parte del film di immedesimarsi nello spettatore; e, dunque, di suscitare per converso una immedesimazione da parte dello spettatore con l’opera stessa. Si tratta perciò di una immedesimazione biunivoca, che procede dall’opera (dagli autori, dal regista e dagli interpreti), verso lo spettatore, per poi tornare riflessa dallo spettatore sull’opera stessa e sui suoi realizzatori. Il principio è fondamentale, perché solo così un film può dirsi non autoreferenziale, e dunque riuscito nel suo scopo principale, che è di natura artistica e perciò comunicativa.

Questo principio implica come sui corollari necessari che:

a) Tutti i temi possono essere trattati con leggerezza ed ironia, così che il cinema deve sempre e comunque strappare anche un sorriso.

b) Il giudizio dello spettatore, prima di quello della critica specialistica, è decisivo nella valutazione di un film. Il cinema, infatti, non è una scienza. 

All’occhio dello studioso risulterà evidente come queste tesi si pongano in diretta continuità con le riflessioni sviluppate nel corso degli anni da Technino. Secondo il noto modello di valutazione proposto nei suoi saggi, si può giudicare in modo scientifico il valore di un opera cinematografica sulla base della risultante di una serie di determinate variabili messe in relazione attraverso quella innovazione decisiva nel campo degli studi di critica artistica che è la "funzione barbarina" (per cui il film deve essere una perfetta combinazione di diversi elementi macinati in dosi perfette e cotti al punto giusto, come le ormai famigerate polpette della moglie di Technino, che lo hanno ispirato nella scelta del nome).

Sulla scala che si ricava grazie a tale funzione, Il signore degli anelli raggiunge sinora il punteggio massimo nella storia del cinema con 93786,23 “punti emozione”, i film di Kenneth Branagh ottengono valori altissimi, buoni risultati hanno taluni lavori di Woody Allen – ma non tutti – mentre molto in basso si situano i “piagnistei” alla Muccino, o in generale il cinema italiano (Cantando dietro i paraventi totalizza un punteggio negativo di -74123,66 e in fondo c’è il recentissimo Funny Games con -91444,74) (per tutti i dati, così come per la descrizione esatta della funzione cfr. Technino, Tractatus de aestimatione cinematographica methodo matematica pertractata, Subwoofer Publishers, Los Angeles 2002, pp. 75-101). 

Chiaramente, il principio della capacità di immedesimazione è direttamente dipendente da questa teoria, perché il fattore «emozione» è proprio il principale nella funzione barbarina. Lungi dall’essere un elemento arbitrario, la capacità di emozionare viene ricavata da statistiche rivolte al pubblico (cfr. Technino, An inquiry on the public’s taste, in «News from Duckburg», January 2004, pp. 36-42). E da queste statistiche emergono chiare costanti, tra cui, ecco la proposta del nostro primo corollario, sono implicate necessariamente anche il sorriso e l’ironia e la levità. Perché un film emozioni, e quindi crei capacità di immedesimazione, non si può prescindere da un lieve sorriso ironico. Nessun film eccessivamente «pesante», lento, o drammatico, per quanto possa essere giudicato un capolavoro dalla critica, e possa effettivamente veicolare anche messaggi di spessore, raggiunge alti livelli su questa scala. Non si tratta certo di una apologia della risata sguaiata: anche i film solamente comici non vengono definiti dal pubblico come film capaci di emozionare, perché evidentemente scivolano addosso alle persone, creano solo “distrazione”. E lo stesso dicasi per i film d’azione pura. Ma, questo è il dato più rilevante, nemmeno i pugni nello stomaco emozionano veramente. Laddove la violenza, il dramma e la lentezza sono spinti troppo all’eccesso, il film tende a creare piuttosto un distacco con lo spettatore, che tende a situarsi al di fuori della storia, o a dimenticarla e/o a rimuoverla subito: si genera infatti un sentimento di rifiuto della realtà.

Ma questa volontà di rimozione, potrebbero obiettare i critici, è un errore infantile da parte del pubblico. Al contrario, l’errore infantile è commesso da chi ritiene che il cinema, catturato inevitabilmente nella struttura della narrazione, con un inizio, un intreccio che si crea e si deve sciogliere, la polarizzazione dei personaggi ed un epilogo, possa riprodurre esattamente le complicazioni della vita: il film è un suo schema, una sua immagine, che può comunicare solo un contenuto, in modo inevitabilmente semplificante; e soprattutto che deve comunicare, perché altrimenti corre il rischio di restare imprigionato nell’intenzione di chi lo ha realizzato. Di essere una parola mai ascoltata. Perché il contenuto sia veicolato, c’è bisogno di rivolgersi alla fiducia dello spettatore, di farselo amico. Il cinema non è una scienza della vita. Il cinema è una rappresentazione artistica della vita. Ciò non significa quindi che il cinema deve essere una sorta di droga, un anestetico rispetto a situazioni anche drammatiche, ma che deve far sognare. Il cinema deve parlare della vita portando fuori dalla vita, regalando bellezza. Per far ciò deve partire dall’esterno della vita dello spettatore e trovarsi una via nel suo cuore, appunto grazie alla bellezza. Si tratta di quell’immedesimazione biunivoca di cui parlavamo in apertura, che altro non è che una fidelizzazione reciproca che pone in una sorta di comunicazione spirituale reciproca l’artista e lo spettatore; l’artista parla allo spettatore, che si sente di entrare in dialogo con lui, e persino di rispondergli, in qualche modo, nel momento in cui si immedesima nell’opera e quindi questa assume una nuova vita nei suoi pensieri, nelle sue fantasie, nella sua esistenza quotidiana.    

Come forma d’arte, un film deve catturare il gusto, che, secondo quanto insegna Kant è la facoltà di ciò che «piace universalmente senza concetto», ossia del bello. Se quindi un certa «energia di attivazione» o alcuni prerequisiti sono utili per accostarsi meglio ai lavori cinematografici, così come ad ogni opera d’arte, essi non devono mai essere necessari. Non deve esistere un film che sia fruibile solo dai critici. I capolavori dell’arte colpiscono l’animo dell’uomo in quanto tale, sfondano la barriera della cultura per arrivare su quel livello, indeterminabile ed insondabile, ma presente probabilmente al fondo di ognuno, che è la natura. Si narra che i barbari rimasero colpiti dalla magnificenza di Roma, entrandovi; ma anche in epoche recenti, era il popolino che decretava il successo delle opere liriche. Una pericolosa scissione dell’arte dalle masse caratterizza invece l’epoca contemporanea, mentre una vera visione democratica dovrebbe sottomettere il giudizio della critica, per quanto proficuo e interessante, alla fruibilità da parte della società stessa.

La critica deve contribuire alla funzione immedesimativa dell’opera cinematografica, e non allargare il vallo dell’incomunicabilità tra artista e spettatore.


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