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Diario di un’anteprima
(A cura di Antonegò)

Ore 18,30. Sono in anticipo sull’orario anticipato di scambio prenotazione on-line con biglietti anteprima. Quando c’è un cinema di mezzo, l’ansia di arrivare tardi mi divora, neanche fossi un pasticcino mignon. Arrivo a Via della Conciliazione, luci, cartelloni formato gigante con il faccione di Will Smith, una cinepresa – gru, di cui adesso non mi sovviene il nome tecnico, insomma, un apparato in grande stile, per l’anteprima di Sette anime, l’opera seconda del Muccino americano. Stasera, del resto, si prevede la presenza del cast. Il bar in cui avrebbero dovuto consegnare i biglietti a inviti è chiuso. Forse sono arrivato troppo presto. Passo davanti all’androne di un palazzo e vedo una piacente ragazza, vestita in tiro, infreddolita, con una scatola di cartone su una sedia. Passo oltre. Mi fermo. Torno indietro e mi fa: “Sì, sono io”. Mi chiedo perché una megaproduzione ingaggi una piccola fiammiferaia per svolgere questo lavoro, ma, evidentemente anche i ricchi piangono, in tempi di austerity e la malcapitata ragazza è stata avvisata solo 10 minuti prima di arrivare, che l’open bar open space alla moda era closed. Vabbé, fa sempre piacere vedere che il lavoro altrui è comunque rispettato… In altri mondi. Mi impossesso dei biglietti omaggio e scambio due chiacchiere, per solidarietà.

Ore 21. Red carpet, flash, guardie del corpo, security, giornalisti e personaggi famosi. Siamo in pieno clima anteprima. Si intravedono Pierfrancesco Favino, Domenico Procacci, qualche gnocca in abito firmato il cui nome non è importante, ma che farebbe piacere conoscere, un pianista suona nella hall dell’auditorium e si passa inosservati sul tappeto delle star, tra rose inglobate in monolitici blocchi di ghiaccio, idea forse dell’organizzatrice di feste cool a Panarea di morettina memoria (se non capite la citazione, andatevi a rivedere, con vergogna, “Caro diario”).

Sala gremita, pubblico variegato, ricchi e famosi si mischiano ma solo in parte, come l’olio nell’acqua, con la plebe che ha avuto la fortuna di leggere quel giornale che pubblicizzava il sito che regalava i biglietti. Atmosfera glamour, fastidiosa quasi come la parola glamour.

Lo schermo proietta le immagini delle interviste al cast, che si attarda all’esterno, per alimentare la famelica bestia dello show business. Will Smith gigioneggia con la folla, prende macchine fotografiche per farsi foto con i fans, qualcuno gli passa una maglietta con su scritto “Il Papa c’è”, forse per ricordargli che a qualche centinaia di metri c’è San Pietro (sarà il luogo comune sull’ignoranza americana). Saluta in italiano. Sapore di dejà vu, ma per lo meno si risparmia il più scontato dei “Roma, i love you” e riesce a rilasciare un’intervista senza parlare di spaghetti e melanzane alla parmigiana (che pure si vedranno nel film!). Rosario Dawson, la donna più bella del mondo a portare il nome di un mafiosetto palermitano e il cognome che ricorda una fortunata serie televisiva fine novanta, concede sorrisi di prammatica e complimenti di retorica. Infine si vede Gabriele Muccino, l’unico dei tre che avrebbe davvero bisogno del traduttore simultaneo. Sorrisi, abbracci, foto sceme e sentiamo la mancanza del pulpfictiano Mr. Wolf, quando dice: “Ragazzi, è ancora un po’ presto per farsi i pompini a vivenda”. Ma tant’é.

Muccino, con l’umiltà che lo connota da sempre, spera che il film non ci faccia commuovere troppo. Will Smith fa il simpatico e in qualche maniera lo è davvero. Buio in sala (finalmente).

Cosa dire del film? Gli attori son bravi, il regista riesce a dare un taglio non noioso alle immagini, ma il film pare un po’ privo di anima, troppo forzatamente melodrammatico, quasi studiato a tavolino. Fa piacere, ma stona anche, sentire, nella colonna sonora la bellissima e dissonante “Crisis” di Morricone, udita non troppi anni or sono nel “La leggenda del pianista sull’oceano”.

Il film, insomma, è ridondante e pur donando qualche immagine poetica, lascia un po’ freddi, quasi si assistesse a uno spettacolo che vuole commuoverci a tutti i costi. Prevedibile. Qualche maligno alla fine commenta:”finché è a gratise, va tutto bene”.

Applausi a scena aperta, qualche timida standing ovation dell’ipocrita pubblico pubblicano, che quasi interpretasse un ruolo, sente il dovere di manifestare teatralmente il proprio assenso, quando è invitato a una première.

E alla fine, sebbene il film sia tra i più melodrammatici degli ultimi anni (più triste di questo, mi sovviene solo quello della malata terminale che cerca di allietare persone tristi, fidanzandosi con loro, “Sweet november”, per la cronaca), l’happy ending trionfa nella sala, ammaliata dal buonismo e dal muccinismo imperanti. Il mio personale voto, a chi interessa, è un 6, senza infamia e senza lode, perché, comunque, il film si lascia guardare.

E poiché altre anteprime non sono in programma, si consiglia l’affitto del dvd. Magari da Videovideo.


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