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GLI APPROFONDIMENTI DEL CINE-FORUM

 TUTTI GLI SPECIAL
Il cinema noir francese dal 1942 ai giorni nostri - seconda e ultima parte
(A cura di Foster Kane)

Gli anni settanta:

Il “polar”diviene uno dei generi predominanti in Francia e saranno diversi i registi che seguiranno le orme di Becker e Melville: quest’ultimo, intanto, dirige altri due film.

 “I senza nome” (“Le cercle rouge”, 1970) è la sua opera più commerciale di cui purtroppo non si può parlare a fondo in questa sede poiché l’edizione italiana ha subito diversi tagli. Interpretato da Delon, Montand, Bourvil e da Gian Maria Volontè (che sul set non legò con il regista soprattutto per divergenze politiche), “I senza nome” contiene molte delle situazioni tipiche del “noir”: tre delinquenti, descritti come sempre in maniera molto appropriata, partecipano ad una rapina, ma rintracciati da un commissario di polizia verranno brutalmente eliminati. La figura meglio analizzata è senza dubbio quella dell’ex poliziotto alcolizzato impersonato da Montand: un uomo sfatto, trasandato, conscio di essere un perdente ma che, nonostante abbia rinunciato alla sua parte, decide lo stesso di aiutare gli altri due. 

Nel 1972 mette in scena “Notte sulla città” (“Un flic”): questa volta la storia si incentra su un commissario di polizia, a differenza degli altri soggetti dove l’attenzione era per lo più focalizzata sull’ambiente della malavita. La sua ultima opera non sarà tra le più felici nonostante i buoni ingredienti di sempre.

Melville muore nel 1973 e solo di recente la sua attività cinematografica è stata studiata come meritava anche grazie ad una retrospettiva tenutasi a Firenze nel 1994 e ad alcune monografie.

Ma nel corso di questi anni l’eredità di Melville continua e con esempi anche notevoli. Due registi in particolare possono essere considerati suoi successori: Yves Boisset ed Alain Corneau.  

Il primo aveva esordito in sordina alla fine degli anni sessanta e nel 1970 realizza un film di un certo interesse: “L’uomo venuto da Chicago” (“Un condé”) scritto assieme a Claude Veillot (che diverrà il suo principale collaboratore) sulla base di un romanzo di Pierre V. Lesou (lo stesso autore de “Lo spione”). Si tratta di un’opera essenzialmente spettacolare ma accompagnata anche da una forte denuncia sociale: con Boisset si apre la stagione del cinema politico, già avviata da Costa-Gavras con “Z, l’orgia del potere” (“Z”, 1969) e “La confessione” (“L’aveu”, 1970). Tale problematica può essere approfondita anche grazie ad una comparazione con il cinema del nostro paese dove, nello stesso periodo, si realizzano film di impegno sociale: è il caso di Elio Petri, Francesco Rosi, Marco Bellocchio e Damiano Damiani (quest’ultimo può essere paragonato a Boisset per l’attenzione posta al lato commerciale). Nell’uno e nell’altro caso si mettono in luce i problemi socio-politici del paese: da una parte vi è la Francia alle prese con l’annosa questione algerina, i sentimenti nazionalistici ed il razzismo; dall’altra l’Italia con il terrorismo, le lotte operaie e le manifestazioni nostalgiche per il passato regime. Nel caso de “L’uomo venuto da Chicago” la denuncia concerne i metodi violenti adoperati dalla polizia per condurre le indagini (il film, come ricorda Cristina Bragaglia[1], ebbe guai con la censura); tale problema fu anche affrontato da Melville, pur se con una intensità minore (si pensi ai ricatti del commissario Mattei ne “I senza nome”).

Boisset, sul modello di Costa-Gavras, dirige nel 1972 “L’attentato” (“L’attentat”) dove viene ricostruita la vicenda di Ben Barka: i dialoghi sono scritti da Jorge Semprun[2].

La filmografia prosegue con “Una donna da uccidere” (“Folle a tuer”, 1975) interpretato da Marlene Jobert e con “Il giudice d’assalto” (“Le juge Fayard, dit le shériff”, 1976) dove Patrick Dewaere è un magistrato insofferente verso industriali e politici corrotti (l’idea si fonda su autentici fatti di cronaca).

In “Dupont Lajoie” (1975, inedito in Italia) un ristoratore, durante la vacanza in un camping, uccide involontariamente una ragazza facendo ricadere la colpa su un gruppo di operai magrebini. Uno di loro verrà pestato a morte. 

Altro regista che segue l’insegnamento di Melville è Corneau che, dopo aver esordito nel 1973 con un’opera fantapolitica (“France, societe anonyme”), dirige nel 1974 “Police Pyton 357” (id): un film teso e funereo tra i migliori nel genere “noir” degli anni settanta. Ganay (Yves Montand) e Ferrot (Francois Perier), entrambi funzionari di polizia, si trovano coinvolti nell’assassinio della loro comune amante. I sospetti cadono su Ganay che una volta scoperto che è stato Ferrot ad uccidere la donna lo elimina.

Nel 1979 mette in scena un romanzo di Jim Thompson dando vita a “Il fascino del delitto” (“Serie noire”) che ha come protagonisti Dewaere e Bernard Blier. Nel settore del poliziesco Corneau ha dunque una posizione di rilievo o, meglio, ha avuto poiché in seguito si dedicherà ad un diverso tipo di cinema.

Claude Sautet dirige nel 1971 “Il commissario Pellisier” (“Max et les ferrailleurs”), film molto attento all’analisi psicologica dei personaggi e che da poco peso alla vicenda poliziesca che, come in altri casi, fa semplicemente da sfondo. D’altro canto nella filmografia dell’autore troviamo solo tre titoli appartenenti alla sfera del “noir”: successivamente opterà per un genere diverso. Attualmente è considerato uno dei migliori registi francesi: ciò era stato previsto da Melville, anche se in riferimento al “polar”[3].

Ma Sautet aveva anche partecipato alla stesura di molte sceneggiature tra cui quella di “Borsalino” (id) diretto nel 1970 da Jaques Deray che fu un film di grande successo, interpretato da due degli attori più quotati sul mercato del cinema: Delon e Belmondo.  

Cinque anni dopo Deray, traendo spunto da un racconto autobiografico dell’ispettore Roger Borniche, realizza “Flic story” (id.) che vede ancora una volta come protagonista Delon, qui nel ruolo dell’ononimo ispettore alle prese con uno spietato criminale evaso di prigione (Jean Louis Trintignant).

Di Deray merita una osservazione anche “Morti sospette” (“Un papillon sur l’épaule”, 1977) dove Lino Ventura assiste ad una serie inspiegabile di omicidi cui nessuno crede. Curiosa la coppia di sceneggiatori: Jean Claude Carriere e Tonino Guerra.

Era già stato detto in precedenza che diverse volte i romanzi di Simenon verranno portati sullo schermo: a parte i film dedicati al commissario Maigret (uno notevole venne diretto nel 1958 da Jean Dellanoy), possiamo ricordare “L’evaso” (“La veuve Courderc”, 1971) di Pierre Granier-Deferre[4] con Alain Delon che per sfuggire alla polizia si rifugia presso una vedova di cui poi si innamora (Simone Signoret): tutti e due faranno una tragica fine.  

Un’opera di Simenon viene scelta da Bertrand Tavernier per il suo film di esordio: “L’orologiaio di Saint-Paul” (“L’horloger de Saint-Paul”, 1974) con Philippe Noiret e Jean Rochefort. Anche  per Tavernier (come per Sautet ed altri) ciò che realmente conta è la psicologia dei personaggi. Il film si concentra sulla figura dell’orologiaio, scosso dalla notizia che il figlio è ricercato per l’assassinio di un uomo che molestava la sua fidanzata. Per la sceneggiatura ha ottenuto la collaborazione di due vecchi nomi del cinema classico francese: Jean Aurenche e Pierre Bost, esponenti del cosiddetto realismo poetico che fu tanto criticato dai registi della “Nouvelle Vague” (Truffaut in primis) ma molto osannato da Tavernier.

Con la stessa coppia di sceneggiatori Tavernier realizza nel 1976 “Il giudice e l’assassino” (“Le juge et l’assassin”), dove accanto a Noiret recita Michel Galabru in uno dei suoi rari ruoli drammatici: qui impersona Bouvier, un maniaco che durante i primi del novecento stuprò ed uccise una decina di bambini. Si tratta di un film di denuncia: Bouvier viene condannato a morte per i suoi crimini, ma non sono assassini anche coloro che mandano i minori a morire nelle miniere[5]? Viene quindi ripreso l’argomento già affrontato nel bellissimo “Monsieur Verdoux” (id. 1947) di Chaplin e in “Landru” (id. 1963) di Chabrol. 

Josè Giovanni, nonostante la sua attività principale rimanga quella di scrittore, continuerà a dirigere: è da ricordare “Due contro la città” (“Deux hommes dans la ville”) del 1973, soprattutto perché assieme ad Alain Delon vi recita il grande Jean Gabin in una delle sue ultime interpretazioni. Sono ravvisabili nel film alcune delle tematiche fondamentali del cinema poliziesco: oltre a quella dell’amicizia, si può riscontrare ancora una volta l’impossibilità per l’uomo di uscire dalla condizione in cui si trova e di salvarsi (Delon è un delinquente che non riesce a redimersi pur avendo trascorso molti anni in carcere).

Da un suo romanzo Giovanni realizzerà nel 1975 “Lo zingaro” (“Le gitan”), ma si tratta di un’opera inferiore tutta affidata alla bravura degli attori (Delon e Paul Meurisse). 

A partire dalla fine degli anni settanta, accanto ad opere di qualità o comunque onestamente realizzate, prenderà corpo tutta una serie di film mediocri che, trascurando del tutto le vicende psicologiche, si accontenteranno di rappresentare fino alla nausea sparatorie, inseguimenti ed omicidi.  

Uno dei fondatori della “nouvelle vague”, Claude Chabrol, si specializza nella realizzazione di film polizieschi ispirandosi più ad Hitchcock che a Melville e al cinema nero americano.I suoi migliori film sono proprio quelli appartenenti a tale filone e tra questi si ricordano: “Il tagliagole” (“Le boucher”,1970), “Ucciderò un uomo” (“Que la bete meure”, 1971) e “L’amico di famiglia” (“Les noces rouges”, 1973). Grande analizzatore e critico della classe borghese, Chabrol ama mettere in risalto i loro difetti, le loro follie, arrivando così a costruire delle vicende torbide. I personaggi dei suoi film,quasi sempre interpretati dagli stessi attori ( Michel Piccoli, Stephane Audran, Jean Yanne) e quasi sempre con gli stessi nomi, non riusciranno però a nascondere le loro malefatte e, prima o poi, dovranno pagare le proprie colpe. Come osserva Angelo Moscariello nella sua monografia sul regista, la tematica che lega questi film è costituita dall’ “eccesso” e dai numerosi modi in cui tale fenomeno può esprimersi.

Forse la sua miglior opera degli anni settanta è “Ucciderò un uomo” in cui un vedovo, distrutto per la morte del figlioletto causata da un pirata della strada, riesce ad avvicinare il colpevole e a farselo amico con il proposito di eliminarlo. Ma l’omicida, impersonato da un Jean Yanne a suo agio con la parte, scoprirà le sue intenzioni.

Purtroppo anche Chabrol realizzerà alcune opere di livello inferiore[6], riprendendosi però verso la fine degli anni ottanta. 

Il “noir” esercita anche un certo fascino in Italia ed è soprattutto Melville a costituire un modello per un regista rivalutato solo negli ultimi anni: Fernando Di Leo. “Milano calibro 9” (1970), “La mala ordina” (1971)[7] e “Il boss” (1972) costituiscono una trilogia che ha poco da invidiare ai film di Melville, Boisset e Deray. Le successive opere di Di Leo non sapranno all’altezza degli esordi e pochissimi saranno i polizieschi italiani di qualità: tuttavia è innegabile l’influsso del “polar".

Gli anni ottanta e novanta

vengono riuniti in un unico capitolo data la bassa produzione cinematografica in tema di “noir”. Non mancano, comunque, esempi notevoli: è il caso del già citato “Guardato a vista” (1981) di Claude Miller, interpretato da Lino Ventura, Michel Serrault e Romy Schneider (tutti e tre bravissimi). Il film è ambientato quasi interamente in una centrale di polizia durante la notte di Capodanno: un notaio, accusato dell’assassinio di due bambine, viene sottoposto ad un lunghissimo interrogatorio arrivando ad accusarsi dei crimini che in realtà non ha commesso (il vero colpevole verrà scoperto in seguito).Anche qui la trama poliziesca racchiude una profonda analisi psicologica dei protagonisti che verrà sempre più approfondita giungendo al culmine nella scena in cui la moglie del notaio narra al commissario le sue travagliate vicende coniugali: è il momento più bello e poetico del film, reso ancora più emozionante dalla musica di Georges Delerue.

Sempre Miller realizzerà l’anno successivo “Mia dolce assassina” (“Mortelle randonèe”), avvalendosi ancora della partecipazione di Serrault: lo schema è molto simile a quello di “Guardato a vista”, trattandosi anche in questo caso di un film psicologico immerso in una atmosfera da “noir”. I dialoghi sono scritti da Michel Audiard (uno specialista nel genere) e dal fratello Jaques.

Nel 1980 era apparso sugli schermi “Diva” (id.), opera di inaspettato successo messa in scena dall’esordiente Jean Jaques Beineix (sulla base di un romanzo di Delacorta) e realizzata con uno stile allora molto originale: al centro della complicata storia vi è un postino appassionato di lirica che viene coinvolto in una vicenda criminale.Beineix purtroppo non dirigerà in seguito film di simile statura collezionando spesso autentici fiaschi commerciali: uno di questi è “Lo specchio del desiderio” (“La lune dans le caniveau”, 1983) con Gerard Depardieu, dal romanzo “The moon in the gutter” di David Goodis.

Maurice Pialat si misura una sola volta col “noir” dirigendo nel 1986 “Police” (id.), nel quale sono comunque prevalenti le tematiche care al regista come la solitudine e l’insoddisfazione (il che lo assimila per certi aspetti a Robert Bresson), lasciando ben poco spazio alle vicissitudini poliziesche. Nel film non si vede neanche una sparatoria od un inseguimento e si conclude non con dei morti (come accadeva in Melville), ma con una lunga conversazione all’alba tra i due protagonisti: Depardieu e Sophie Marceau.  

Esempio di “polar” nel vero senso della parola è “Codice d’onore” (“Le choix des armes”, 1981) di Alain Corneau, incentrato sul rapporto destinato a tragica conclusione tra Mickey, un giovane criminale (Depardieu) e Noel, un ex della malavita (Montand). Non mancano i momenti sentimentali e Noel alla fine si prenderà cura della figlia di Mickey (che verrà ucciso) nonostante questi sia responsabile della morte  della donna che adorava (Catherine Denevue).  

Il “noir” rimarrà anche in questi anni uno dei generi prediletti da Chabrol che, prima del grande impegno di “Un affare di donne” (“Une affaire de femmes”, 1988)[8], dirige il curioso “Volto segreto” (“Masques”, 1987) dove Philippe Noiret assurge il ruolo di un presentatore televisivo che dietro la sua apparente bonarietà e simpatia cela un orrendo segreto che verrà scoperto proprio durante una diretta del suo “show”. Un’opera non eccelsa ma sicuramente gradevole e comunque migliore di altri film realizzati successivamente da Chabrol (in media uno all’anno).

Bisognerà apettare il 1995 per vedere un altro suo film veramente degno di nota: “Il buio nella mente” (“La ceremonie”), tratto da un romanzo di Ruth Rendell (“La morte non sa leggere”) ed interpretato da un formidabile duetto femminile: Sandrine Bonnaire e Isabelle Huppert. La prima è una domestica timida ed analfabeta, la seconda un’impiegata delle poste che ama leggere la corrispondenza altrui. Anche qui il bersaglio principale è costituito dalla borghesia: tutti i componenti della ricca famiglia presso cui presta servizio la domestica verranno assassinati dalle due donne. 

Con l’ausilio di Michel Alexandre, un ex poliziotto, Bertrand Tavernier scrive la sceneggiatura di “Legge 627” (“Loi 627”,1992). Il protagonista è Lolou, un agente alle prese con il traffico degli stupefacenti e della prostituzione in cui è coinvolta anche Cecile, una donna di cui è innamorato. Un film sottovalutato ma molto realistico che mostra al pubblico una Parigi ben diversa da quella che normalmente si immagina. Alle scene di cruda violenza si affiancano momenti di poesia come alla fine, quando Lolou dopo un anno rivede Cecile con un bambino: i due si abbracciano commossi ma lui si dimentica di chiederle il numero di telefono; forse non si vedranno mai più. Lo schermo si fa nero ed il film finisce.

 Poliziesco e commedia si fondono nei due successivi film di Chabrol: “Rien ne va plus” (id 1997) e “Il colore della menzogna” (“Au coeur du mensonge”,1999). Due opere molto riuscite. Il primo vede protagonisti Michel Serrault ed Isabelle Huppert: una coppia di ladri dediti a piccoli furti che nel cimentarsi in un’ operazione di maggior rischio correranno seri pericoli.

Ne “Il colore della menzogna” un tranquillo insegnante di disegno viene accusato dell’omicidio di alcune bambine; a questa vicenda fa da contraltare la relazione che la moglie intrattiene con uno scrittore, che verrà poi trovato morto. Entrambi i film rimandano alle prime opere del regista (“Marie Chantal contro il dottor Kha” del 1965 e “L’oeiul du malin” del 1962) riconfermandone il talento. 

Nel 1999, dopo anni di assenza, torna Alain Corneau con un film eccellente: “Le cousin” (id), scritto assieme a Michel Alexandre. Il “cugino” in questione è Nounours, un informatore della polizia. Delvaux, il poliziotto, sembra fidarsi di lui, ma ciò ovviamente non va a genio a molte persone, a cominciare dal giudice Lambert che aveva messo sotto inchiesta  un collega di Delvaux a causa della sua complicità con il “cugino”.

Il 2000:

Il nuovo secolo vede ancora una volta la presenza di Claude Chabrol che con “Grazie per la cioccolata” (“Merci pour le chocolate”) centra nuovamente il bersaglio[9].Il film si incentra su Jeanne, una giovane pianista che si introduce nella casa di Andrè Polonski (Jacques Dutronc) per prendere delle lezioni private. La ragazza in realtà crede di essere sua figlia, ma la moglie di Polonski, Mika (Isabelle Huppert), non gradirà la sua presenza. Il film, presentato fuori concorso a Venezia, incontra il favore del pubblico e della critica: al di là della regia di Chabrol, sempre ottima, è la superba interpretazione di Isabelle Huppert che contribuisce alla riuscita dell’opera. Ella interpreta una donna apparentemente normale, ma in realtà diabolica: tenterà di eliminare Jeanne assieme al figlio Guillaume. Il tutto avviene in un clima di serenità e tranquillità all’interno di una famiglia borghese di Losanna: l’equilibrio verrà però sconvolto dall’ingresso in scena della ragazza.

Il successo di Chabrol continua con i suoi film successivi: “Il fiore del male” (“La fleur du mal”, 2003), “La damigella d’onore” (“La demoiselle d’honneur”, 2005), “La commedia del potere” (“L’ivresse du pouvoir”, 2006) e “L’innocenza del peccato” (“La fille coupée en deux”, 2008).Tra questi solo “La commedia del potere” risulta un po’ debole, ma le altre sono opere di alto livello che rafforzano il prestigio di quello che oggi è considerato uno dei maestri del cinema francese.

Nel corso di questi anni assistiamo anche ad una sorpresa che ci viene fatta da un ex poliziotto, Olivier Marchal, che nel 2004 dirige un ottimo film: “36 Quai des orfèvres” (id). Interpretato da un gruppo di attori in stato di grazia (Depardieu, Auteuil e Dussollier) “36” riesce a coniugare la tradizione del noir francese con la spettacolarità del più recente cinema poliziesco americano che ha come maggiori modelli Michael Mann e William Friedkin.Marchal realizzerà nel 2008 “L’ultima missione (“MR 73”), interpretato da Daniel Auteuil, che però non sarà all’altezza del precedente. 

Attualmente la produzione poliziesca francese è scarsa ma di sicuro di alta qualità come dimostrano tali recenti opere. Il maestro indiscusso del genere resta tuttavia Jean Pierre Melville ed è anche per questo che Alain Corneau decide di omaggiarlo realizzando, nel 2007, un remake del suo capolavoro: “Le deuxième souffle”         



[1] Cristina Bragaglia, “Storia del cinema francese”, Newton, 1995.

[2] Il progetto del film risale a Joseph Losey, che lo avrebbe dovuto dirigere negli anni sessanta.

[3] Melville dichiarò nel 1962: “Claude Sautet sarà il nostro più grande cineasta” (“Claude Sautet”, Script-Leuto, 1996). Sautet morirà nel luglio del 2000.

[4] Di Pierre Granier-Deferre si ricordano: “Sotto il tallone” (“Le metamorphose des cloportes”, 1965) e “Dai sbirro” (“Adieu Poulet”, 1975).

[5] La didascalia finale recita così: “Tra il 1893 e il 1898 il sergente Bouvier uccise 12 bambini. Nello stesso periodo più di 2500 ragazzi morirono nelle miniere e nelle fabbriche tessili, assassinati!”

[6] Si pensi a “Gli innocenti dalle mani sporche” (“Les innocents aux mains sales”, 1975), forse il suo punto più basso.

[7] Questi due film sono tratti da “Milano calibro 9” di Giorgio Scerbanenco cui, oltre a Boisset, si era ispirato sempre Di Leo per “I ragazzi del massacro” (1969).

[8] Il film tratta la vicenda di Marie Latour, l’ultima donna condannata alla pena di morte, e costituisce il primo vero ruolo da protagonista per Isabelle Huppert.

[9] Il film è tratto dal romanzo “The chocolate cobweb” dell’autrice americana Charlotte Armstrong.


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