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GLI APPROFONDIMENTI DEL CINE-FORUM

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Il cinema noir francese dal 1942 ai giorni nostri - prima parte
(A cura di Foster Kane)

Premessa:  

Questo breve saggio sul cinema poliziesco francese è stato scritto  circa dieci anni fa ed è stato aggiornato e rivisto di recente.

Sull’argomento esistono diverse opere e molti film sono stati proiettati in occasione di una retrospettiva tenutasi a Roma tra il dicembre 2003 ed il gennaio 2004.

Scopo di queste pagine non è solo quello di fornire una visione di insieme su un genere spesso considerato di serie b ma anche e soprattutto quello di invogliare il lettore alla visione di film di cui sembra essersi persa ogni traccia. Basti pensare a capolavori come “Il buco” o “Police Pyton 357” o al fatto che un film come “Le deuxième souffle” di Alain Corneau (remake del capolavoro di Melville) non sia stato ancora distribuito in Italia nonostante nel cast vi figuri Monica Bellucci!

I primi passi:

un’ accurata analisi sul cinema “noir” francese (definito anche “polar”) dovrebbe iniziare dagli anni ’50: tuttavia un breve cenno meritano alcuni film realizzati nel corso del secondo conflitto bellico. La produzione è alquanto scarsa e le uniche opere degne di nota sono quelle di Henry - Georges Clouzot che esordisce nel 1942 con “L’assassino abita al ‘21” (“L’assassin habite au 21”). Si tratta, in realtà,  di una commedia poliziesca.

Ne “Il corvo” (“Le corbeau” , 1943)  una serie di lettere anonime rivela le nefandezze praticate in un paese di provincia apparentemente tranquillo.

Riconducibile in maniera più appropriata al “noir” è invece “Legittima difesa” (“Quai des orfèvres” , 1947) che denota una maggiore attenzione al lato drammatico della vicenda (un pianista è ingiustamente accusato di omicidio).

Nel 1949 esce “Mission à Tangeri” di Andre Hunnebelle (inedito in Italia) considerato il capostipite ufficiale del cinema nero in Francia. 

Gli anni cinquanta:

appartengono a tale decennio alcuni dei maggiori classici del cinema poliziesco francese: una delle pietre miliari è “Grisbi” (“Touchez pas au grisbi”), diretto nel 1953 da Jaques Becker, un nome di punta del cinema transalpino, apprezzato, tra gli altri, anche da Truffaut. La storia prende spunto da un romanzo di Albert Simonin (che curò anche la sceneggiatura) e ruota attorno alle vicende di due bande rivali entrambe interessate ad un carico di lingotti rubati: una trama non originalissima, ma trattata dando largo spazio alle implicazioni psicologiche (l’amicizia virile tra i due protagonisti poi divenuta quasi un punto di obbligo per molti altri film).Non mancano poi inseguimenti e sparatorie che costituiscono elementi qualificanti del genere.

Nello stesso periodo viene realizzato “Rififi” (“Du rififi chez les hommes”, 1954) , tratto questa volta da un romanzo di Auguste Le Breton. La regia è affidata a Jules Dassin, uno statunitense rifugiatosi in Francia in seguito al maccartismo e che già si era distinto in patria per l’attenzione prestata al poliziesco. Il film descrive una rapina messa in opera ai danni di una gioielleria.

Sempre un’opera di Le Breton costituisce la base di partenza per un film diretto l’anno successivo da Henry Decoin: “La grande razzia” (“Razzia sur la chnouf”). Qui un poliziotto (la cui vera identità verrà scoperta dallo spettatore solo alla fine) entra a far parte di una organizzazione dedita al commercio della droga riuscendo a farne arrestare tutti i componenti. Un’ eccellente opera cinematografica che deve molto alla bravura degli attori ( Jean Gabin, Paul Frankeur e Lino Ventura, tra l’altro già presenti in “Grisbi”) e ad una suggestiva fotografia notturna.  

Nel 1954 torna alla ribalta Clouzot con uno dei suoi migliori film : “I diabolici” (“Les diaboliques”) con cui siamo nei paraggi dell’ “horror”.

Sul finire degli anni ’50 prende vita il fenomeno della “Nouvelle Vague” che, in un’ottica di rifiuto del cinema tradizionale basato soprattutto sul lavoro degli sceneggiatori (“le cinema de papa” che fu di Clement , Autant-Lara e Carnè), incentra il suo impegno sulla regia e sulla improvvisazione di attori spesso non professionisti. “Ascensore per il patibolo” (“Ascenseur pour l’echafaud” , 1957) di Louis Malle e “A doppia mandata” (“A double tour” , 1958) di Claude Chabrol sono due esempi notevoli di cinema “noir” realizzati all’interno di tale corrente (anche se Malle non vi apparteneva ufficialmente).

Con “Fino all’ultimo respiro” (“A bout de souffle” , 1959) di Jean-Luc Godard, nonostante certe strizzate d’occhio a Huston e a Bogart, siamo in un ambito diverso; d’altro canto per Godard il soggetto cinematografico costituisce (e costituirà) soltanto un pretesto.

Il 1959 è un anno importante: da una parte l’exploit della “Nouvelle Vague” , dall’altra due registi (peraltro diversi tra loro) realizzano il loro miglior film: Jaques Becker con “Il buco” (“Le trou”) e Renè Clement con “Delitto in pieno sole” (“Plein soleil”).

Il primo è, senza dubbi, il miglior film “noir” della storia del cinema francese e tratta di un tentativo di evasione da un carcere progettato in maniera tecnicamente perfetta, ma destinato a fallire: anche in questo caso la storia non è particolarmente originale (si ispira al romanzo omonimo di Josè Giovanni) , ma la regia è curata in maniera sorprendente , così attenta nel descrivere in maniera minuziosa anche certi particolari a prima vista insignificanti. Nessuna recensione, all’uscita nelle sale di “Fuga da Alcatraz” (“Escape from Alcatraz”,1979) di Don Siegel, ha pensato ad un paragone con il film di Becker: eppure diversi sono i punti di contatto (i manichini realizzati dai detenuti per ingannare le guardie , lo specchietto grandangolare utilizzato per vigilare sul corridoio). “Il buco” fu l’ultimo film del regista (che morirà l’anno successivo) e non ebbe molta fortuna dal punto di vista commerciale.

Anche “Delitto in pieno sole” è una grande opera, ben diversa dalle precedenti di Clement. Alla sua riuscita molto ha contribuito la  sceneggiatura di Paul Gegauff, fido collaboratore di Chabrol. Il romanzo ispiratore è di Patricia Highsmith ed il protagonista del film si chiama Tom Ripley (come in altri romanzi dell’autrice) che qui si sostituisce ad un suo amico, uccidendolo, per impossessarsi delle sue ricchezze e della sua donna; ma alla fine la verità verrà (in tutti i sensi) a galla.

Il 1959 è anche l’anno di “Le jene del quarto potere” (“Deux hommes dans Manhattan”) di Jean-Pierre Melville, il cui orrendo titolo italiano che richiama alla mente il capolavoro di Orson Welles ci fa capire che la storia è ambientata nel mondo giornalistico: un reporter (interpretato dallo stesso regista) ed un fotografo alcolizzato indagano sulla scomparsa di un delegato francese dell’O.N.U. Anche questo film si rivelò un pesante scacco commerciale, dovuto soprattutto alla forte attenzione che in quegli anni la stampa ed il pubblico prestavano alla “Nouvelle Vague”. Melville, comunque, si sarebbe rifatto in seguito.

Nello stesso anno esce nelle sale un altro “noir” degno di rilievo: “Asfalto che scotta” (“Classe tous risques”), sceneggiato da Josè Giovanni e diretto da un regista quasi esordiente che diventerà famoso negli anni successivi: Claude Sautet.  

Gli anni sessanta:

il decennio è caratterizzato dal dominio di uno dei più grandi autori del “polar” francese: Jean-Pierre Melville.

Grande estimatore della cultura statunitense (il suo cognome è un omaggio allo scrittore Herman Melville), aveva già realizzato alcuni film a partire dalla fine degli anni ’40 (“Le silence de la mer”, 1947), ma non si era distinto per uno stile particolare e oltretutto non aveva goduto dei favori del pubblico (e neanche della critica). In questi anni si assiste ad un totale ribaltamento della situazione: le sue opere cinematografiche sono cupe, disperate e costellate di personaggi destinati a fallire: quasi nessuno nei suoi film riesce a salvarsi, tutti cadranno nella trappola da loro stessi creata.

“Lo spione” (“Le doulos” , 1962) è quasi un compendio di tutti gli aspetti del cinema melvilliano; la storia si concentra su due uomini: Maurice e Silien (Serge Reggiani e Jean-Paul Belmondo) che assieme architettano un furto in una villa; le cose non vanno per il verso giusto poiché qualcuno parla. Uscito di galera, Maurice assolda un killer per far uccidere Silien, ritenuto il responsabile, ma venuto a sapere che in realtà egli è innocente fa di tutto per impedire l’omicidio: tutti e due verranno colpiti a morte dal killer. Ottimamente diretto e sceneggiato , “Lo spione” risulta tra i migliori film di Melville  ed è quello più funereo e spietato, in cui la morte ha quasi una rappresentazione teatrale (prima di morire Silien ha addirittura la forza di telefonare alla sua amica per annullare un appuntamento).

Su “Lo sciacallo” (“L’ainè des fercheaux” , 1963) non vi è molto da dire: ispirandosi ad un’opera di Georges Simenon (autore i cui romanzi sono stati spesso presi a prestito per adattamenti cinematografici), il regista rivela tutta la sua ammirazione per ciò che è americano ed infatti la vicenda si svolge nel sud degli Stati Uniti. Anche qui viene descritta la storia di un perdente:un banchiere fallito (impersonato da Charles Vanel).

Nel 1966 realizza quello che gran parte della critica ritiene il suo capolavoro : “Tutte le ore feriscono ... l’ultima uccide” (“Le deuxième souffle”), scritto assieme a Josè Giovanni e tratto da un suo romanzo. Qui si narra la vicenda di Gu Minda (un ottimo Ventura) che dopo essere evaso entra a far parte di una organizzazione criminale; in seguito ad una rapina è costretto a nascondersi, ma verrà ucciso da un poliziotto. Questo film rappresenta l’unica collaborazione di Melville con lo scrittore, sceneggiatore e (successivamente) regista Josè Giovanni, il quale conobbe personalmente il mondo della malavita ed il carcere; d’altro canto si possono riscontrare talune parentele tra “Il buco” e gran parte dell’opera melvilliana.

Il suo successivo film è “Frank Costello, faccia d’angelo” (“Le samourai”, 1967) interpretato da Alain Delon che veste i panni di un killer solitario che esegue omicidi su commissione. Tradito dagli uomini per cui lavora e braccato dalla polizia verrà assassinato nello stesso night dove aveva ucciso un uomo. Molto si è discusso sul carattere quasi schizofrenico del protagonista, che agisce in maniera meccanica, ripetitiva; non per nulla il titolo originale dell’opera richiama la pazienza e la meticolosità con la quale egli, al pari di un samurai, esegue ogni lavoro. Ma tutto il film è realizzato con grande precisione ed attenzione per ogni dettaglio. Anche qui la morte ha un sapore teatrale; addirittura il regista girò la scena finale in due versioni in una delle quali (assente dall’edizione italiana) Frank muore sorridendo. In realtà il suo è un suicidio (Nogueira parla di “uno dei più bei karakiri del cinema”)[1] poiché sa che inevitabilmente verrà ucciso (quando lascia il cappello al guardaroba non ritira la ricevuta).

Gli anni sessanta comprendono anche altri ottimi esempi di cinema poliziesco: per ricollegarci a Melville è giusto parlare di Josè Giovanni che esordisce come regista nel 1966 con “La donna per una notte” (“La loi du survivant”) e prosegue con “Il rapace” (“Le rapace”), un western nero, e nel 1969 con “Ultimo domicilio conosciuto” (“Dernier domicile connu”). Quest’ultimo è indubbiamente il miglior film di Giovanni che oltre ad essere caratterizzato da un ottima interpretazione (Lino Ventura e Marlen Jobert sono una coppia perfetta) è dotato di un sottofondo psicologico di buona tenuta.

Jaques Deray annovera un posto di rispetto nella filmografia “noir”: nel 1963 dirige “Sinfonia per un massacro” (“Symphonie pour un massacre”), scritto assieme a Giovanni e Claude Sautet, mentre nel 1968 ottiene un grande successo con “La piscina” (“La piscine”).

Quest’ultimo in realtà non è un vero e proprio “polar”: molto malignamente si è detto che la prima parte del film sembra un Losey dei poveri[2] (qualche allusione a “L’incidente”?) e che solo l’ultima mezz’ora ha una atmosfera da giallo. Maggiori sono le affinità con “Delitto in pieno sole”, poiché vi è una ambientazione turistica molto simile e gli stessi interpreti: Alain Delon, Maurice Ronet e Romy Schneider (che nel film di Clement faceva una breve apparizione); punti di simmetria vi sono anche nella trama. Nonostante tutto “La piscina” è un film ben diretto ed interpretato; tra gli sceneggiatori figura il bunueliano Jean-Claude Carriere, che lavorerà più volte con Deray.

Di Claude Sautet gli anni sessanta ricordano diverse sceneggiature ed un solo film: “Corpo a corpo” (“L’arme a gauche”, 1965).

Alla fine del decennio esordisce Yves Boisset il quale rivestirà una certa importanza nel corso degli anni settanta. Dopo aver fatto l’aiuto regista per Clement e Melville (suo principale modello cinematografico) dirige nel 1968 “L’assassino ha le ore contate” (“Coplan sauve sa peau”) e nel 1969 “L’affare venere privata” (“Cran d’arret”), tratto da un romanzo di Giorgio Scerbanenco.

Nel 1968 escono “Due sporche carogne” (“Adieu l’ami”) e, poco dopo, “Addio Jeff” (“Jeff”), diretti da Jean Herman. Sono due film polizieschi senza troppe pretese, ma realizzati con una certa cura: il primo è sceneggiato dallo scrittore Sebastien Japrisot mentre il secondo da Jean Cau e Andrè G. Brunellin (quest’ultimo, pur essendosi specializzato nel “noir”, scriverà la sceneggiatura de “Il deserto dei Tartari” di Valerio Zurlini). Herman aveva già esordito nel 1966 con “Le dimanche de la vie” (inedito in Italia): suo aiuto regista è Claude Miller cui ricambierà il favore nel 1981 prendendo parte alla sceneggiatura di “Guardato a vista” (“Garde a vue”). In seguito darà vita ad altre sceneggiature soprattutto per alcuni film di Deray e Georges Lautner.

Renè Clement dirige nel 1969 “L’uomo venuto dalla pioggia” (“Le passeger de la pluie”), interpretato dal divo americano Charles Bronson. La sceneggiatura di Japrisot (come nel caso di “Due sporche carogne”) rende la storia piuttosto complicata ma complessivamente, pur essendo ben distanti da “Delitto in pieno sole”, il film è di buona fattura.

Nello stesso anno esce “Il clan dei siciliani” (“Le clan des siciliens”), che il veterano Henry Verneuil,[3] assieme a Pierre Pellegri e Josè Giovanni, ha adattato da un romanzo di Auguste Le Breton. Interpretato da tre star del cinema francese (Gabin, Delon e Ventura) e accompagnato da una delle colonne sonore più conosciute di Ennio Morricone  è essenzialmente un film di grande presa spettacolare.

La panoramica sugli anni ’60 si conclude con un cenno all’italo-francese Robert Enrico, che nel 1965 realizza “Una vampata di violenza” (“Les grandes gueules”): opera cinematografica ammirata dalla critica ove per l’ennesima volta Josè Giovanni vi partecipa in qualità di sceneggiatore.



1)Rui Nogueira, “Il cinema secondo Melville”, Le mani 1994.

2)Paolo Mereghetti, “Dizionario dei film”, Baldini e Castoldi, 1993.

3)Altri film diretti da Verneuil sono: “Colpo grosso al Casinò” (“Melodie en sous-sol”, 1963) e “Il poliziotto della brigata criminale” (“Peur sur la ville”, 1974).



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