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Fino all'ultimo respiro" di Jean Luc Godard - a cura di Foster Kane

“Fino all’ultimo respiro” (“à bout de souffle”, 1959) è il film più insolito di Jean Luc Godard. Insolito non perché strano o eccessivamente sui generis ma proprio perché è “normale” e normale è l’aggettivo sicuramente più inappropriato per giudicare l’opera omnia di uno dei maestri del cinema francese. E’ giusto ricordare che si tratta del suo primo lungometraggio e che comunque nella sua normalità lo spettatore non potrà non avvisare qualcosa di particolare, ma chi conosce, anche parzialmente, la filmografia godardiana dovrà ammettere che “Fino all’ultimo respiro” costituisce un capitolo a parte.

Non è un caso che per questo film esiste una trama che ruota attorno alla vicenda di Michel Poiccard (Jean Paul Belmondo), sorta di avventuriero conosciuto anche con il nome di Laszlo Kovàcs (questo è una prima citazione: è il nome di Belmondo in “à double tour” di Claude Chabrol), che a seguito dell’uccisione di un poliziotto progetta di espatriare. La sua donna, Patricia (Jean Seberg), però lo denuncerà e Michel, nel tentativo di fuggire, verrà colpito a morte. Ovviamente a Godard poco interessa l’intreccio (che comunque, è doveroso ricordarlo, è firmato da François Truffaut) che altro non è se non un pretesto per dimostrare teorie e trucchi cinematografici (vi è ad esempio il passaggio da una scena ad un’altra attraverso la tecnica della tendina a iris), per citare apertamente film (“Il colosso d’argilla” con Bogart e “Le piace Brahms?”) o registi (oltre a Godard stesso, che fa una piccolissima parte, vi è un ruolo affidato a Jean Pierre Melville) oppure per dire tutto quello che gli passa per il cervello. Nonostante la breve durata vi sono scene entrate ormai nella storia del cinema e che hanno fatto di questo film un modello da imitare: al di là di un remake con Richard Gere, “Fino all’ultimo respiro” ha sicuramente costituito (assieme ad altre opere di Godard) la principale fonte di ispirazione del cinema di Quentin Tarantino. E’ soprattutto in “Jackie Brown” (1998) ad essere forte il richiamo all’opera prima godardiana, richiamo riscontrabile nel montaggio. E’ vero che, senza dubbio, Godard per il montaggio ha subito l’influenza del Kubrick di “Rapina a mano armata” il quale, a sua volta, ha fatto suoi gli insegnamenti di Ejzenštejn, ma l’originalità con cui ha concepito il tutto è innegabile. Ripetiamolo: il cinema di Godard è molto particolare e lo spettatore può addirittura arrivare al punto di odiarlo o di desiderare di mettere al rogo le sue pellicole (come fece Fantozzi con “La Corazzata Potemkin”) ma “Fino all’ultimo respiro” resterà sicuramente fuori dalle sue mire e potrà vederlo dall’inizio alla fine in modo sereno. Certo, potrebbe non piacere ma non provocherà in lui sconvolgimenti simili a quelli che si possono subire visionando film come “Week end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica”, “Passion” o “Prenom Carmen”.

Per concludere si può consigliare anche la visione di un altro suo film per certi aspetti migliore, “Questa è la mia vita” (“Vivre sa vie”) con una grandiosa interpretazione della sua compagna di allora: Anna Karina.


Angel

a cura di Edna

Se col nome cerchiamo di affermarci, nei soprannomi c’è quanto gli altri vedono in noi, e ci somiglia più di qualsiasi altra cosa al mondo. Se al soprannome aggiungiamo qualche nota musicale, potremmo tingere di scuro occhi e capelli, coprirci di sabbia nel deserto, ma non sfuggire agli occhi chi ci cerca. Londra e Parigi nel 1937, il mondo sta cambiando come solo un tedesco trapiantato negli Usa sa raccontare; dell’aristocrazia elegante restano i vestiti da sera; di giorno la moglie di un diplomatico inglese veste già in tailleur, sebbene longuette. E proprio perché siamo in Inghilterra, tra le solide mura di una ricca casa con la servitù più british che si possa immaginare, più conservatrice dei propri padroni, il cambiamento non è traumatico. Francesi, russi, americani ed inglesi, of course, sempre in cima alla Storia, sono oggetto di facezie e caricature; ma è tutta la società, come dicevamo, a guardarsi intorno tra eventi grandi e repentini e a rispondere, ognuno a modo proprio. Ed anche l’adulterio non è un tabù, specie “per due persone intelligenti”.

In un’ipotetica graduatoria di pregio delle scene, il testa a testa è degno di fotofish: i delicatissimi dialoghi (un assaggio per gli utenti di facebook: “Perché non avete scritto? Sapete che mi piace mantenermi in contatto con gli amici”/”per questo non l’ho fatto”. “Have you ever been a stranger in a stranger city?”/”Often”/“What did you do?”/“I cryed”), le sequenze senza parole (l’inquadratura che scorre lungo le finestre della maison parigina dell’aristocratica russa; la cornetta del telefono staccata mentre la melodia che scorre come un fiume dalle dita di Antony si fà prova tangibile per Frederick del tradimento), gli eventi fuori scena o dietro alla porta chiusa, segno distintivo di Lubitsch (il riconoscimento da parte di Antony dell’identità tra Angelo e Mary nel ritratto in casa Barker; l’addio tra Mary ed Antony). A voi la scelta, e la scoperta; non resterete delusi.

“Marlene Dietrich si commuove!” potremmo esclamare, parafrasando lo slogan che lanciò il più famoso “Ninotchka”: “Garbo laughs!”. Per chi è rimasto alla Marlene Dietrich de “L’angelo azzurro” ecco un etereo, dolce e forte Angelo che svela espressioni inedite sul suo viso: indimenticabile. Non so voi, ma non sono mai riuscita a vedere Melvyne Douglas come un tombeur de femmes. Eppure, come in “Ninotschka” e come Maurice Chevalier ne “la Vedova allegra”, visto il film, non riuscirei a figurarmi interprete più adatto per quel ruolo. In punta di fioretto il dialogo tra i due contendenti su un vecchio amore comune ai tempi del militare; nel brindisi “alla Duchessa di Piombino!” Antony restituisce alla vecchia fiamma la nobiltà che la donna (con rimpianto) non aveva mai potuto vantare. L’inglese Barker tributa l’affetto, ma brinda semplicemente “a Paulette!”. Herbert Marshall è un uomo brillante, non affascinante come il rivale, ma “trascinante come un vecchio valzer” che appartiene “come un segreto solo a due persone”; un attore giustamente caro al regista, già nel cast del famoso “troubles in Paradise”, in Italia “mancia competente”. Ma sto anticipando troppe cose, … no, non merita di essere“spiegato”, tantomeno da me. Almeno una menzione fugace però su Edward Everett Horton, qui in versione british, ma inconfondibile ed impeccabile come in tutti i film di Lubitsch. Insomma, what are you waiting for?

 


“Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre” (Vincent, François, Paul et les autres) di Claude Sautet (1975) - a cura di Foster Kane

soggetto: Claude Nèron (dal suo romanzo “La grande marrade”)

 

sceneggiatura:   Jean Loup Dabadie, Claude Nèron, C. Sautet

 

fotografia: Jean Boffety

 

musica: Philippe Sarde

 

interpreti: Yves Montand, Michel Piccoli, Serge Reggiani, Gerard Depardieu, Stéphane Audran, Umberto Orsini, Antonella Lualdi  

 

 

Claude Sautet (1924 – 2000) è stato un regista che ha conosciuto il successo del pubblico e confermato quello della critica solo negli anni novanta, cioè alla fine di una lunga carriera iniziata nel 1959 con “Asfalto che scotta” (Classes tous risques) e terminata nel 1995 con “Nelly et Mr Arnaud” (id).

 

Nel parlare di Sautet verrà spontaneo ricordare soprattutto “Un cuore in inverno” (Un coeur en hiver), il film che nel 1993 lo rese celebre anche fuori dei confini francesi. Ma già in passato, ed in particolar modo negli anni settanta, Sautet aveva dimostrato grande talento realizzando dei piccoli gioielli come “L’amante” (Les choses de la vie), “E’ simpatico ma gli romperei il muso” (Cèsar et Rosalie) e soprattutto “Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre” (Vincent, François, Paul et les autres), un film dimenticato e di cui ci occupiamo nella nostra rubrica.

I tre amici in questione sono Vincent (Yves Montand), un piccolo industriale in crisi sia lavorativa che sentimentale (separato dalla moglie non riesce ad accettare l’idea del divorzio), François (Michel Piccoli), un medico pienamente consapevole dei tradimenti della moglie e Paul (Serge Reggiani), uno scrittore ormai privo di idee. Al gruppo si aggiunge anche Jean (Gerard Depardieu in una delle sue prime interpretazioni), un giovane dipendente di Vincent e pugile professionista. La storia si incentra essenzialmente su Vincent che, sull’orlo del fallimento, riesce ad ottenere un prestito dall’ex suocero per pagare i debiti. L’occasione viene colta anche per chiedere alla moglie di tornare a vivere con lui ma lei rifiuta anche perché andrà a lavorare all’estero. Il dolore è grande è si aggiunge allo smacco professionale causato dalla vendita della sua azienda. Mentre è con alcuni amici in un bistrot (locale molto frequente e frequentato nei film del regista) Vincent viene colto da un infarto. Fortunatamente un po’ di riposo lo rimetterà in sesto.Nell’ultima mezz’ora del film l’attenzione si focalizza sugli altri protagonisti  e soprattutto su François, abbandonato dalla moglie (è andata a vivere con un amico comune) e su Jean, in procinto di affrontare un incontro di boxe molto difficile da cui ne uscirà vittorioso.Le vicissitudini, tuttavia, non intaccheranno minimamente l’amicizia del gruppo ed il film si conclude con un fermo immagine che ritrae i tre amici. 

Quella di “Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre” può essere definita “Una storia semplice” che racconta “Le cose della vita” (questi i titoli originali di due film di Sautet). Per quale motivo apprezziamo questa opera che sicuramente è tra le migliori del regista francese? Innanzitutto per la grande abilità con cui Sautet riesce a  raccontare una vicenda drammatica sapendovi nel contempo inserire toni da commedia (ed in questo gli è stato di grande ausilio un attore poliedrico come Montand). Notevole è inoltre la ricostruzione psicologica di tutti i personaggi, ognuno con i propri problemi ed il proprio carattere (ad esempio Piccoli/François risulta particolarmente irascibile mentre Reggiani/Paul  è tratteggiato come un uomo tranquillo e anche un po’ lunatico). Aggiungiamo al tutto un nutrito gruppo di attori di primissimo livello (difficile dire chi sia il migliore) diretti con mano sapiente ed anche le musiche melodrammatiche di Philippe Sarde, uno dei maggiori compositori del cinema francese degli anni settanta che, tra l’altro, ha orchestrato i film di Bertrand Tavernier e Yves Boisset. 

Basta questo a fare di “Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre” un grande film? Sicuramente si e non è da trascurare il fatto che un grande regista come François Truffaut (peraltro diversissimo da Sautet) alla sua uscita nelle sale lo elogiò profondamente tanto da inserirne il commento nel suo libro “I film della mia vita”. E’ curioso che Sautet abbia esordito con dei film polizieschi (il primo “Asfalto che scotta” fu molto apprezzato da un maestro del noir: Jean Pierre Melville) e che abbia scritto la sceneggiatura di “Borsalino” (id) di Jaques Deray, però è anche vero che in questi film ciò che risalta non è tanto la vicenda quanto i personaggi: già dagli esordi Sautet si segnala come un regista psicologo. 

La visione di questo film (purtroppo mai uscito né in VHS né in DVD) è caldamente consigliata a tutti i nostalgici del cinema di qualità assieme ad altri film del regista tra cui “L’amante”, “Il commissario Pellisier”  (Max et les ferrailleurs) e “Nelly et Mr Arnaud".  


“Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato” (1972) di Florestano Vancini - a cura di Foster Kane

soggetto e sceneggiatura: F. Vancini, Nicola Badalucco, Fabio Carpi, Leonardo Sciascia

       

fotografia: Nenad  Jovicic

 

musica: Egisto Macchi

 

interpreti: Ivo Garrani, Mariano Sigillo, Rudolf Kukié, Modrag Loncar

 

Dove si trova Bronte? Di quale massacro fu teatro? E Florestano Vancini? Chi era costui? Già dalla lettura del titolo di questo film emergono degli interrogativi cui si pone la necessità di rispondere. A questo scopo inseriamo nella nostra rubrica una recensione su questa opera cinematografica (purtroppo) dimenticata che ricostruisce un episodio della nostra storia (purtroppo) poco conosciuto e realizzata da un regista, Florestano Vancini,  (purtroppo) sconosciuto ai più. 

Bronte è un piccolo comune di 20.000 abitanti in provincia di Catania rinomato per alcuni prodotti agricoli, in primis il pistacchio. Nel 1799 divenne un feudo inglese allorché il re di Napoli, Ferdinando IV, donò l’abbazia di Maniace all’ammiraglio Nelson che venne nominato Duca di Bronte.

La vicenda narrata dal film si svolge nell’agosto del 1860. In quel periodo si stava gradualmente compiendo l’unità d’Italia e Garibaldi, partendo dalla Sicilia, avviò il processo di liberazione del Mezzogiorno dal dominio borbonico. A Bronte, come nel resto della Sicilia, si iniziava a respirare aria di libertà e tra i contadini (che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione) si accendeva la speranza di una riforma agraria che portasse ad una equa distribuzione delle terre. Purtroppo la nuova classe dirigente non sembrava affatto interessata, almeno per il momento, ad affrontare questo problema e la popolazione rispose con la rivolta. 

Il film si apre con il pestaggio violento di due contadini, rei di aver rubato la legna, ad opera dei signorotti locali (i “cappelli”) quasi a dimostrazione del fatto che il crollo del regime borbonico non ha modificato di una virgola la triste condizione della classe agricola costretta a nutrirsi di sanguisughe.

Di giorno in giorno la consapevolezza di un futuro difficile si rafforza sempre di più e sull’onda del successo della rivoluzione garibaldina il popolo di Bronte decide di impugnare le armi. Uccisioni, incendi e saccheggi vengono compiuti nonostante la ferma opposizione dell’Avvocato Nicola Lombardo che, proclamato presidente del Municipio, riuscirà a convincere buona parte dei rivoltosi a deporre le armi e a consentire l’ingresso delle truppe garibaldine. Non solo a Bronte ma anche in altre città si stavano verificando episodi simili: per Garibaldi era necessario ristabilire l’ordine e decise di inviare il generale Nino Bixio che vi decretò lo stato d’assedio.

Lombardo era fiducioso: Bixio era uno degli uomini più fidati di Garibaldi cioè di colui che stava realizzando l’unità italiana (a Teano Garibaldi disse a Vittorio Emanuele II “Saluto il Re d’Italia” e questi rispose “Saluto chi l’ha fatta”).  Purtroppo la storia riserverà un triste destino a Lombardo che viene indicato come il principale animatore della rivolta. Bixio decide che a Catania si sarebbero processate circa 150 persone ritenute responsabili dei disordini (37 delle quali verranno condannate all’ergastolo) ma che era necessario, da subito, dare un “esempio” giudicando e condannando 5 uomini: il primo era proprio Lombardo.

Il processo si svolge in maniera sommaria e si conclude con la condanna a morte degli imputati: tra questi un malato di mente che, uscito illeso dalla fucilazione (per grazia della Madonna, come dirà lui stesso) viene freddato con un colpo di pistola alle spalle da un ufficiale. 

Come recita la didascalia iniziale il film si basa su fatti e personaggi veri ricostruiti tramite documenti ufficiali dell’epoca che, elencati nei titoli di coda, fanno di “Bronte” una vera e propria opera storica. L’intento di Vancini e dei suoi sceneggiatori (tra cui Leonardo Sciascia) era proprio quello di consegnare alla memoria una cronaca accurata su uno degli episodi più neri del Risorgimento italiano, rifuggendo dalla spettacolarità e affidando la recitazione ad attori in buona parte non professionisti (le uniche eccezioni sono Ivo Garrani e Mariano Sigillo, famosi perlopiù a teatro).

Si è voluto in questo modo evitare l’effetto agiografico che avrebbe potuto distogliere l’attenzione dello spettatore dai fatti per concentrarlo sugli attori (comunque anche i non professionisti dimostrano un grande talento).

Ed è in questo che “Bronte” si differenzia da altri film storici sul Risorgimento come “Il gattopardo” di Visconti (1963), opera notevole diretta da uno dei più maggiori maestri del cinema mondiale, ma che ha uno dei maggiori punti di forza proprio nella presenza di attori di grande fama. D’altro canto Vancini aveva esordito nel 1960 con “La lunga notte del ‘43” in cui rievoca un fatto realmente accaduto: l’assassinio  per mano di un gerarca fascista di un suo compagno di partito allo scopo di far ricadere la colpa sugli oppositori giustificando così un eccidio in cui perirà anche il padre del protagonista. Anche qui è forte l’interesse storico ma una buona parte del film è dedicata alla storia d’amore tra i due protagonisti che verrà bruscamente interrotta dall’aggravarsi della vicenda. La memoria storica tornerà ne “Il delitto Matteotti” (1973) interamente dedicato all’uccisione del deputato socialista e alle conseguenze che si ebbero nella politica interna, dove invece è forte l’effetto agiografico: vi recitano attori celebri tra cui Franco Nero, Mario Adorf, Vittorio De Sica e Gastone Moschin. 

Ritornando a “Bronte” è innegabile il valore dell’opera a livello storico e cinematografico. Un film, come si è detto all’inizio, poco conosciuto e che merita di essere visionato.

 

Alcuni anni fa il film è stato restaurato e vi sono state aggiunte alcune scene. Ad oggi però non vi è traccia di una copia né in DVD né in VHS. Perché dei capolavori devono restare nel dimenticatoio?

 

Curiosità: 

- Florestano Vancini (nato nel 1926 a Ferrara) ha iniziato la sua attività come documentarista ed è stato aiuto regista di Valerio Zurlini (altro autore dimenticato) per “Estate violenta” (1959). Nel 1967 firma un western, “I lunghi giorni della vendetta”, con lo pseudonimo di Stan Vance (erano molti, tra attori e registi ad “americanizzare” il proprio nome). Già prima di Fellini scoprì il talento drammatico di Ciccio Ingrassia che ne “La violenza: quinto potere” ci offre un’interpretazione notevole. Tra gli anni ottanta e novanta inizia a lavorare per la televisione dirigendo “La Piovra 2” e la serie “Piazza di Spagna”. Torna al cinema nel 2005 con “E ridendo l’uccise”.

 

- “Bronte” è stato girato nell’ex Jugoslavia (precisamente in Croazia) ed è interpretato da numerosi attori del luogo.

 

- Il film trae ispirazione da una novella di Giovanni Verga: “Libertà”. 


Himalaya - L'infanzia di un capo

Questa volta parliamo di un film particolare che, oltre ad essere molto avvincente e con paesaggi mozzafiato, apre uno spiraglio per conoscere una realta’ lontanissima da noi, ma cosi’ attuale in questi momenti di lotta per i diritti civili del Tibet.

Eric Valli, il regista, fa reportage per il National Geographic Magazine e Life, pubblica libri, ha diretto pluripremiati documentari ed e’, insomma, uno straordinario professionista. Per realizzare Himalaya -  L'infanzia di un capo, ha vissuto per mesi nei luoghi dell'azione, conoscendone i futuri protagonisti e diventando loro amico. Questa volta, però, non ha voluto realizzare un documentario, ma un film narrativo; anche se basato su una drammaturgia ridotta all'essenziale e su fatti molto reali per le popolazioni tibetane.

Il film ci porta in un villaggio a nordest dell'Himalaya, a cinquemila metri d'altezza, abitato da un popolo metà contadino, metà nomade. L'unica risorsa per sopravvivere è trasportare il sale dell'alto Tibet per scambiarlo con grano ed alimenti nelle valli del Nepal, viaggiando con carovane di yak per piste a strapiombo, sfidando la neve e le valanghe. Il capo Tinlé non vuole lasciare il comando della spedizione a Karma, che ritiene responsabile della morte del suo primogenito, ma Karma organizza una propria carovana e parte prima della data fissata. Allora il capo ne allestisce un'altra assieme al figlio minore ed al nipote, e sfida ancora una volta la montagna. La prima parte del film, più contemplativa, serve a far conoscere i personaggi. La seconda è occupata dal lungo viaggio, che evoca quasi una lunga marcia biblica.

Valli, però, preferisce definire il suo film un "western tibetano", con memorie di Jack London e di Joseph Conrad. E non ha torto: i cowboy a cavallo dovevano trasportare le mandrie, mentre quelli degli yak portano sale; però sono molto simili il senso dell'epica, l'immanenza del pericolo, l'itinerario attraverso una natura incontaminata dalla "civiltà". Il sottotitolo del film, L'infanzia di un capo, sottolinea che il viaggio ha anche un valore iniziatico.

La cosa straordinaria è che Himalaya (che ha avuto una Nomination all’Oscar nel 1999 come migliore film straniero) riesca a essere un documentario antropologico, un “western” ed un racconto di formazione, partendo dalla realta’ e senza farle violenza. Gli attori sono i veri abitanti del villaggio nepalese; i luoghi (e le altidudini) sono rigorosamente autentici. Un film da recuperare in DVD, ancora disponibile presso qualche rivenditore.

(Technino)


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