Sembra davvero che l’America, insieme al crollo delle Torri gemelle, abbia subito il crollo di quegli ideali e valori fondanti che da sempre hanno costituito il melting pot e la ricchezza di un Paese, nato dall’unione di culture disparate.
Questo lascia trasparire l’opera seconda di Thomas McCarthy, già regista di “The station agent” e attore in “Lettere da Iwo Jima”, “Syriana, Good night, and good luck” e “Ti presento i miei”. Il film ha riscosso molti successi nei festival internazionali, vincendo il premio del pubblico e della sceneggiatura al Sundance Festival, il BAFTA (British Academy of Film and Television Arts) per la migliore sceneggiatura e due Independent Spirit Awar, nonché riconoscimenti a San Sebastian, Stoccolma, Città del Messico e Aspen. In realtà la regia manca un po’ di personalità, la storia, senza troppi acuti, subisce una dilatazione eccessiva, e il film risulta meritorio esclusivamente per la tematica affrontata e per le interpretazioni di Richard Jenkins, già visto quest’anno in Burn after reading, e Hiam Abbas, attualmente al cinema con Il giardino di limoni.Bravissimo soprattutto Jenkins, nel ruolo di uno stanco e inaridito professore universitario, che finge di essere occupato e che ritorna a vivere e provare emozioni, quando nella sua vita irrompono due extracomunitari illegali. Quando un attore riesce con uno sguardo, con impercettibili movimenti del viso a trasmettere emozioni, allora si capisce di avere di fronte un grande attore e Jenkins è senz’altro un ottimo caratterista che merita attenzione.
E forse, il suo grido disperato dinanzi al vetro antiproiettili della prigione di massima sicurezza mascherata in un edificio qualsiasi della periferia americana, è il grido di sdegno di una parte dell’America che non è disposta a sacrificare la ricchezza della diversità e l’amore per la libertà sull’altare di uno stato di polizia che propugna tolleranza zero e sicurezza, arrogandosi poi il diritto di esportare una democrazia che non abita più qui. La miopia di una politica errata, figlia di una violenza subita che non è stata in grado di tramutarsi in altro che in paura, è magnificamente raffigurata dall’ottusità delle guardie carcerarie che non sanno dare informazioni e paiono sempre più automi senz’anima, grigi simulacri di una tragica realtà il cui contraltare è la solare e festosa solidarietà degli immigrati che si riunisco nel parco, per suonare e cantare.
Alla fine, il ritmo ossessivo del tamburo nella metro, pare essere il battito di un cuore che non si rassegna, e non si vergogna di battere e battere e battere.